Sabato 27 Aprile 2024

Nel prossimo fine settimana, il Vescovo Mario incontrerà le Parrocchie della città, gli operatori sanitari e gli ammalati in ospedale, mentre la mattina del 9 maggio alcune realtà sociali presenti in Desio.
Qual è il motivo di una visita da parte del Vescovo? La scorsa settimana ho già offerto alcune motivazioni e, nel presente articolo, desidero suggerire qualche atteggiamento attraverso accenni e domande:
1. Il Vescovo visita le Parrocchie che esprimono il comune mandato del Risorto ad annunciare e vivere il Vangelo.
Stiamo vivendo un concreto e sempre più reale cammino di comunione tra le Parrocchie della nostra Comunità pastorale?
Stiamo attrezzandoci a vedere l’insieme senza tralasciare il particolare?
Stiamo ripensando alle modalità con cui annunciare il Vangelo nella città, dove la maggior parte degli uomini e delle donne non si sente più parte della Chiesa?
2. Il Vescovo incontra le Parrocchie ma anche altre realtà civili ed ecclesiali e lo fa nella vita ordinaria, quotidiana.
Stiamo cercando di individuare linguaggi e forme di dialogo con le realtà cittadine a livello caritativo, culturale, interreligioso?
Stiamo cercando vie capaci di favorire l’inclusione di tutti, con la gioia di essere custodi di una notizia buona per la felicità di ciascuno?
Abbiamo a cuore la chiamata ad assumerci responsabilità e impegni nei vari ambiti della vita ecclesiale e sociale, lasciandoci orientare da un unico bene: che il mondo creda e ogni persona possa essere segno di una vita ricevuta in dono e per questo donata?
3. Il Vescovo si mette in ascolto del nostro vissuto ispirato e orientato dal Vangelo.
Abbiamo a cuore il presente e il futuro della nostra città?
Ci appassioniamo alla questione educativa e alla cura delle fragilità?
Questa città è da noi amata? 
                                                                                                                                                                                                                           don Mauro

 

La prassi liturgica prevede sempre di cantare l’Alleluia e il Santo. In particolare il Santo si colloca al momento centrale della messa e invita il popolo di Dio a esplodere in un canto gioioso. In esso si esprimono la manifestazione della propria fede – il Santo è Dio, ben presente alla Chiesa in preghiera –, lo sguardo benevolo sull’universo creato – pieno della gloria di Dio e chiamato perciò a essere casa accogliente per l’umanità – e l’attesa che si ripeta il gesto dell’ultima cena proclamando che Colui che viene nel nome del Signore è benedetto!
Anche l’acclamazione Osanna, che originariamente pare fosse invocazione di aiuto, sull’onda di quanto i vangeli attribuiscono ai fanciulli festosi nell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, diventa un grido di giubilo. Come tante espressioni della preghiera cristiana e della liturgia, si può partecipare al canto del Santo in modo meccanico, senza riflettere su quanto si afferma e senza dargli la giusta intonazione. Oppure le bocche restano serrate, magari con la scusa di non conoscere testi e melodie che ormai anche le immobili statue della chiesa potrebbero far risuonare. Non mancherà – specie in tempi colpiti da pandemia e guerra, ma sempre siamo segnati da preoccupazioni e sofferenze personali e familiari – chi dirà che non c’è niente da festeggiare e di cui gioire, e in parte gli si potrà dare ragione.
Non dimentichiamo però che il canto del Santo introduce proprio la memoria dell’ultima cena e del sacrificio cruento della croce: il corpo di Gesù è offerto e il suo sangue è versato. Questo è però il modo con cui Dio ama, perdona, impegna se stesso senza sacrificare altri. E si realizza qui la parola di Gesù: Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici.
Siamo noi gli amici che ricevono la vita, lo sono i cieli e la terra risplendenti della bellezza del creatore, lo è la vita dei cristiani impegnata a ripetere le parole, i gesti, lo stile di Gesù.
E Gesù è benedetto perché viene nel nome del Signore: non è una benedizione di cui si appropria come se avesse vinto un Oscar o una medaglia olimpica, ma è la benedizione di Dio che, riversata sul Figlio, raggiunge ciascuno di noi.
Proclamando che Gesù è benedetto lo siamo anche noi, l’umanità del nostro tempo, il nostro mondo. Anche in tempi bui e tristi, la nostra vita è benedizione per tutti.

                                                                                                                                                     don Gianni

Salmo in minore

Proseguo – dopo il segno della croce e l’invocazione penitenziale – a proporre qualche riflessione su alcuni elementi della celebrazione eucaristica.
Oggi tocca a quello che solitamente chiamiamo “Salmo responsoriale”. Anche se l’ultima riforma del rito ambrosiano lo chiama semplicemente “Salmo”, continua anche per noi a caratterizzarsi per la ripetizione di un ritornello, o responsorio, recitato o cantato. Non capita spesso che nell’omelia il predicatore faccia riferimento al Salmo e, forse, il ritornello si ripete meccanicamente, magari senza notare la differenza tra dire “Lodate il Signore popoli tutti” o “Perdona i nostri peccati” oppure “Salvaci, Signore, da ogni male”. I Salmi sono 150 componimenti a carattere poetico, che occupano un intero libro della Bibbia e intendono esprimere nello stesso tempo la preghiera a Dio e i diversi stati dell’animo umano.

Quale pace?

Dopo il segno di croce, il Kyrie e il salmo, mi soffermo sullo scambio della pace. Un gesto talvolta vissuto frettolosamente. La pandemia ne ha anche ridotto la dinamica, coinvolgendo per ora solo lo sguardo e non anche le mani.
In rito ambrosiano il gesto della pace è posizionato prima della presentazione del pane e del vino, in fedeltà alla parola di Gesù nel vangelo di Matteo (5,23-24): «Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono». E infatti il celebrante o il diacono secondo la formula del messale possono dire: «Secondo l’ammonimento del Signore, prima di presentare i nostri doni all’altare, scambiamoci il dono della pace».
I più anziani ricorderanno che ai tempi della messa in latino questo gesto non c’era, anche se le parole corrispondenti venivano pronunciate (Offerte vobis pacem).
Scambiarsi un gesto di pace spinge anzitutto i partecipanti alla messa a sentire e vedere che non sono presenti al rito come singoli, slegati e staccati tra loro, ma come comunità: la prima carità cristiana è proprio quella di edificare una comunità concreta, un’assemblea di preghiera, un’unica famiglia di Dio, durante la santa liturgia. Altrimenti anche la carità verso i poveri sarà segnata da una mentalità di competizione e di efficienza, più per affermare se stessi e le proprie realizzazioni che per servire chi è nel bisogno. Scambiarsi un gesto di pace spinge a interrogarsi interiormente se il nostro animo è in pace, se non ci sia qualcuno che ci vede come nemici, se noi stessi coltiviamo sentimenti di inimicizia. Desiderando che non prevalgano rancori e risentimenti, ma emergano desideri di riconciliazione.
Scambiarsi un gesto di pace è lanciare una profezia: sono cristiano e questo gesto per me riassume il progetto del Vangelo, di Gesù, sul mondo: un mondo di Fratelli tutti, come direbbe papa Francesco. Un gesto davvero rivoluzionario: annunciare e costruire pace per i popoli, specialmente di fronte a conflitti sanguinosi, come quello cui assistiamo in queste settimane, e come quelli che i nostri tempi non ci hanno risparmiato ovunque nel mondo. Stringendosi la mano, sorridendo con lo sguardo, abbracciandosi: sia pace tra noi.
Un tesoro da custodire e sfruttare, da ascoltare e ripetere.

don Gianni

Con o senza vergogna La scorsa settimana ho scritto del segno della croce, gesto introduttivo specialmente alla celebrazione della Messa. Proseguendo proprio nei gesti della Messa, viviamo l’atto penitenziale, dove i fedeli sono invitati a rendersi conto di essere peccatori e a chiedere perdono.

Un gesto scomodo, che passa rapidamente. Nelle messe con gruppi ristretti di ragazzi ho provato talvolta a chiedere se, superando un certo disagio, non volessero confessare pubblicamente qualcosa di cui era opportuno secondo loro chiedere perdono e che, ovviamente, potesse essere condiviso con tutti. I più coraggiosi hanno aderito: non avevano osservato certe regole della vacanza comunitaria, avevano preso in giro un compagno più debole, avevano sprecato del cibo, avevano fatto – letterale – diventare matti gli animatori ecc. Questo gesto, vissuto in partenza con un po’ di vergogna, diventava per tutti una liberazione, vedendo che tutti fatichiamo, tutti ci rendiamo conto di sbagliare, tutti possiamo chiedere scusa a Dio e al prossimo e ricominciare con serenità il nostro cammino.

Se ripetessimo questa proposta agli adulti in un’assemblea domenicale? Qualcuno penserebbe: “Queste sono cose mie personali, non metto in pubblico le mie magagne”. Qualcun altro: “Se dico qualcosa, poi verrò giudicato male, perché la gente pensa bene di me”. Oppure: “Sono un disastro, non basterebbero due ore”. E ancora: “Sono gli altri che devono vergognarsi: mogli, mariti, figli, suoceri, governo, parrocchia”. Non mancherebbe l’obiezione: “Ma io non ho niente di cui vergognarmi! Cosa pretende?”. E infine: “I soliti preti che vogliono manipolare le coscienze!”. Già, le coscienze: l’esame di coscienza, la conoscenza di sé, il discernimento di bene e male, il rientrare in sé per dare nome alle proprie luci e alle proprie ombre, per raccogliere le proprie ferite e affidarsi alla misericordia del Signore.

Quando diciamo Kyrie eleison – Signore, abbi pietà di noi – e quando confessiamo di avere molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni stiamo preparando il terreno per la nostra conversione e per la trasformazione del mondo. Nella richiesta di perdono infatti non portiamo solo noi stessi e i nostri peccati, ma le disgrazie e le malvagità del mondo e invochiamo riconciliazione affinché siano superate fame, guerre, malattie, odio e indifferenza.

Don Gianni.

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